Il caso degli NFT nel settore della moda.
Gli NFT (non fungible token) possono essere definiti, in modo molto semplice, come un insieme di informazioni digitali registrate su blockchain, caratterizzati dall’essere unici, insostituibili, indivisibili. In altri termini, gli NFT sono oggetti digitali e crittografici la cui proprietà è registrata in modo univoco su blockchain (ancor meglio bisognerebbe dire che gli NFT rappresentano diritti su oggetti virtuali o reali).
Sempre per intenderci, le criptovalute sono invece delle “monete” virtuali e quindi beni fungibili, interscambiabili.
Perché se ne parla così tanto e meritano la nostra attenzione?
Perché gli NFT sono strettamente legati al metaverso, in quanto permettono di instaurare rapporti economici sicuri e registrati.
Il settore della moda, in particolare quella del lusso, è pioniera nell’esplorazione e nella conquista del mondo del metaverso: diciamolo, un po’ perché è un industria che si può permettere di investire importanti budget per la creazione degli NFT e un po’ perché il carattere “esclusivo” del metaverso va a braccetto con il proprio branding e la propria clientela.
Per riportare alcuni esempi, Gucci ha creato l’NFT di una propria borsa che è stata venduta a più di 4000 €, per essere indossata all’interno del videogioco Roblox.
Nike ha lanciato una serie limitata di sneaker, la “Dunk Genesis Cryptokicks”, di cui un paio è stato venduto all’asta per 124mila euro.
Balenciaga ha creato un’unità aziendale dedicata alle opportunità del metaverso e ha annunciato la propria collaborazione con il videogioco Fortnite per creare capi per gli “avatar” dei giocatori.
Lo scorso dicembre Adidas ha lanciato 30.000 NFT “Into the metaverse” che consentono di accedere in via esclusiva al merchandising dell’azienda nel metaverso: l’operazione ha portato a un fatturato di 23 milioni di dollari.
Infine, Dolce e Gabbano hanno lanciato la “Collezione Genesi” con pezzi pensati esclusivamente per il mondo virtuale e altri prodotti anche nel reale: l’intera collezione in NFT è stata battuta all’asta per 6 milioni di euro.
DMarket ha stimato che il solo business delle skin (ovvero dei capi digitali)si aggira attorno ai 30-40 miliardi di dollari l’anno e Morgan Stanley ha previsto che entro il 2030, metaverso, gaming e NFT rappresenteranno il 10% del mercato del lusso.
Ma gli NFT non interessano solo il mercato del lusso; H&M ha creato un proprio store nel metaverso di Ceek City.
La startup DressX crea armadi digitali per acquistare outfit da utilizzare nel gaming e nelle piattaforme di metaverso.
Inoltre, la startup Mioo sta lavorando alla creazione di un sistema di etichettatura che, oltre a garantire una tracciabilità trasparente, consente di creare un abito virtuale per ogni capo reale.
Al momento, in ogni caso, gli NFT guardano a un mercato di nicchia, non inclusivo e lontano dalle attuali sfide economiche e sociali.
Tuttavia, gli NFT sono anche acclamati come una soluzione per ridurre l’impatto ambientale del settore moda.
Dalle sfilate in metaverso che riducono il traffico aereo dei partecipanti, al design che consentirebbe di sperimentare e costruire nuovi modelli senza lo spreco di tessuto con prove, ritagli e sfrifi..
Ma associare i capi digitali alla sostenibilità è tout court corretto?
Spesso i capi virtuali vengono considerati di per sé sostenibili, in quanto non viene utilizzato tessuto, non c’è sfruttamento di terra e risorse naturali e non si producono capi che restano invenduti o rifiuti da smaltire.
Tuttavia, lo studio della sostenibilità non può che prendere il via dalla consapevolezza che ogni nostra azione ha un impatto e, dunque, non può essere senza conseguenze, in termini ambientali, neanche il mondo del metaverso.
E quindi entra in gioco un’altra doverosa domanda: a fronte dell’urgenza che stiamo vivendo a causa della crisi climatica, le finalità che si perseguono con gli NFT meritano l’impatto generato?
La sostenibilità richiede necessariamente un approccio olistico. Non può esser preso solo un elemento del tutto per dichiarare che, non portando con se i problemi del prodotto precedente, è di per sé sostenibile.
Bisogna piuttosto valutare quale sia l’impatto degli NFT e se siano utili a rendere il settore moda realmente più sostenibile.
Altrimenti si rischia di svuotare la sostenibilità di significato.
Prendiamo quindi in considerazione, brevemente, i principali fattori che rendono il settore della moda tra i più impattanti in termini di emissione di co2:
- sovraproduzione;
- sfruttamento di risorse naturali;
- dislocazione della produzione (trasporti, tralasciamo qui i problemi etici della manodopera);
- smaltimento dei rifiuti e dell’invenduto.
Alla luce di tali ingenti problemi, sembrerebbe che gli NFT possano contribuire solo alla riduzione degli scarti tessili in fase di progettazione e realizzazione del capo, evitando che vengano prodotti scarti di tessuto conseguenti a prove e ritagli.
In aggiunta, la possibilità di provare nella realtà virtuale i capi digitali, potrebbe aiutare ad acquistare online con maggiore sicurezza e quindi a ridurre i resi.
Allo stesso modo, la possibilità di vedere e magari provare i capi digitali potrebbe aiutare a incentivare il modello di prevendita: l’azienda di moda potrebbe realizzare e mettere sul mercato reale solo ciò che i clienti hanno prescelto nel mondo virtuale (ci sta lavorando l’”amata” Shein).
Tuttavia, non è possibile affermare che questi benefici siano sufficienti a giustificare l’impatto generato.
La tecnologia blockchain, su cui sono registrati e utilizzati gli NFT, è infatti molto energivora e comporta l’emissione di ingenti quantità di CO2e. In particolare, l’alto dispendio di energia deriva dal processo di verifica su ogni transazione e nella fase di registrazione dell’NFT (mining).
Ad esempio, ogni transazione su Ethereum (una piattaforma di blockchain) ha bisogno di 260 kilowatt ora di elettricità; in un anno si tratta del consumo di un Paese come Singapore, ovvero circa 26,5 terawatt-ore di elettricità all’anno.
Esistono tipi di blockchain più efficienti in termini energetici e sicuramente si lavorerà ancora per ridurre le emissioni di questi prodotti, ma non è assurdo che ciò che viene annunciata spesso come una soluzione per una moda più sostenibile, sia in realtà generatrice di nuovi e ulteriori problemi di emissioni?
Se prendesse piede il mercato della moda nel metaverso, con il modello attuale di 52 collezioni all’anno e una moda concepita come usa e getta, non si darebbe alcun contributo alla riduzione dell’impatto ambientale della moda ma, anzi, si incrementerebbe.
Il modello economico di consumismo sfrenato rimarrebbe lo stesso, spostandosi solo nel mondo virtuale: le esperienze virtuali potranno forse in qualche misura ridurre l’acquisto di capi reali ma il problema si sposterà nel mondo virtuale.
Gli obiettivi di sostenibilità sono chiari:
mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2° C entro il 2030 ed entro lo stesso anno, per l’Europa, ridurre le emissioni di almeno il 55%.
Per ridurre, è bene ricordarlo, non è sufficiente compensare con la piantumazione di nuovi alberi (che tra l’altro richiedono molti anni prima di poter assorbire CO2 in grandi quantitativi).
Possiamo permetterci un mondo virtuale se non possiamo salvare quello reale?
Sara Secondo