Greenwashing: ovvero belle parole ma vuote.

La sostenibilità va dimostrata, non annunciata.

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“Stop greenwashing” ha intonato Cosmo dal palco di Sanremo.

È stato bello sentire questo messaggio da un palco seguito da milioni di italiani ed è stato importante per dare un po’ di attenzione mediatica a un fenomeno che danneggia la transizione verso modelli economici più sostenibili.

Probabilmente molti non avranno neanche compreso le parole, mentre altri avranno scambiato sguardi perplessi con i propri compagni di divano, chiedendosi: “che significa greenwashing?”.

Ebbene, la risposta non è apparentemente così semplice perché occorrerebbe prima definire cosa significa “sostenibile”, “green”, “amico dell’ambiente” etc.

Infatti, per “greenwashing”, in termini generici, si intende la falsa, incompleta o tendenziosa informazione circa le qualità di un prodotto o di un servizio in termini di sostenibilità ambientale.

Come possiamo capire, quindi, che un green claim sia scorretto e costituisca “greenwashing”?

Il “greenwashing” può essere ricondotto nella più ampia categoria della pubblicità ingannevole, ovvero di tutte le pratiche di marketing che esaltano qualità inesistenti, o esistenti in minor misura, di un prodotto/servizio in modo tale da trarre in inganno il consumatore che si basa sulle qualità annunciate per compiere la propria scelta di acquisto.

Il Tribunale di Gorizia, lo scorso novembre, in un procedimento cautelare ha imposto la cessazione di una pubblicità di un’azienda che proclamava la sostenibilità del prodotto commercializzato in modo generico, senza dar conto nello specifico di quali processi o accorgimenti lo rendessero davvero sostenibile.

Tale condotta, secondo la decisione, costituisce concorrenza sleale.

Così, il Tribunale di Gorizia ha deciso che le locuzioni “scelta naturale, amica dell’ambiente, la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo, microfibra ecologica” fossero censurabili, se non corredate da spiegazioni scientifiche sui modi in cui si possa raggiungere con quel prodotto un’effettiva riduzione dell’impatto ambientale o un’asserita sostenibilità.

Al di là di questa isolata decisione, in Italia l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria tratta da anni con serietà il greenwashing. L’art. 12 del Codice di autodisciplina pubblicitaria, infatti, in merito alla tutela dell’ambiente naturale stabilisce che: <<La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono>>.

Il Tribunale di Gorizia sembra aver fatto proprio questo orientamento anche se, purtroppo, la norma fa parte di un codice di autodisciplina, ed è quindi una regola vincolante solo per le aziende che aderiscono allo IAP.

A livello normativo, manca invece una legge specifica che sanzioni il greenwashing.

Il codice del consumo tutela in modo generico il consumatore da pratiche commerciali scorrete, in quanto false e ingannevoli; tuttavia, il codice specifica anche che viene “fatta salva la pratica pubblicitaria comune e legittima consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera”.

Una tutela insufficiente, dunque, e inadatta a fronteggiare il grave e diffuso fenomeno del greenwashing.

In questa lacuna normativa, non pare rassicurante, neanche il fatto l’AGCOM (Agenzia garante della concorrenza e del mercato) possa intervenire anche autonomamente per sanzionare le condotte che ledano la libera e la leale concorrenza.

Diversamente in Francia, lo scorso agosto è stata promulgata una legge sulla tutela dell’ambiente –  “Climat et Résilience” – con la quale è stata introdotta la protezione dell’ambiente come bene da tutelare contro le pratiche commerciali scorrette, nonché sanzioni severe per chi adotta condotte qualificabili come “greenwashing” (pena pecuniaria fino all’80% delle spese effettuate per la campagna pubblicitaria “green” e l’obbligo di diffondere la sentenza di condanna su quotidiani e sul sito web dell’azienda interessata).

Oltralpe, quindi, il “greenwashing” è sanzionato a livello normativo e ha ad oggetto la  tutela dell’ambiente e dei consumatori.

E non è cosa da poco.

In Italia, così com’è al momento, il bene tutelato contro le pratica di falsi green claim è la libera concorrenza e, pertanto, le pratiche di “greenwashing” possono essere sanzionate solo a fronte di un potenziale danno a un’azienda concorrente (così com’è avvenuto nel caso di Gorizia).

Diverso è se il focus della tutela è su consumatori e ambiente: in questo caso chiunque potrebbe far valere il proprio diritto alla protezione dell’ambiente.

Come ha specificato anche il Tribunale friulano, infatti, non si tratta solo di tutelare la libera concorrenza e i consumatori, ma la posta in gioco è l’effettiva tutela dell’ambiente: se i vanti ambientali contenuti nei messaggi pubblicitari diventassero frasi di uso comune e non corrispondessero esattamente a una determinata qualità del prodotto/servizio pubblicizzato, si svuoterebbe di senso il concetto di sostenibilità, vanificando anche gli sforzi per raggiungerla.

Dunque, serve una legge che, come avviene in Francia, sanzioni le aziende che praticano “greenwashing”.

Proprio oggi è entrata in Costituzione, tra i diritti fondamentali, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (art. 9 Cost) ed è stato modificato l’articolo sull’iniziativa economica, stabilendo tra gli altri limiti, che questa non possa essere in contrasto con la salute e l’ambiente (art. 41 Cost).

Un riforma epocale che riconosce un diritto fondamentale – e quindi intangibile – dell’individuo e della collettività e che, in quanto tale, può essere fatto valere contro chiunque ponga in essere condotte che ledano o minaccino tale diritto.

Si può ben sperare che questa riforma sia anche l’inizio un programma di nuove leggi volte a tutelare nel concreto l’ambiente e, tra queste, anche norme stringenti che sanzionino il “greenwashing”.

Fino ad allora, facciamo tesoro dell’orientamento dato dal Tribunale di Gorizia per captare i segnali di “greenwashing” e scegliere cosa acquistare.


Non è facile tra le fila del supermercato analizzare i singoli prodotti o andare a verificare la veridicità di un messaggio e non lo è neanche a casa, dato che siamo tutti, volenti o nolenti, senza disponibilità di tempo.

Se non riusciamo a informarci sul singolo prodotto, però, possiamo andare sul sito dell’azienda e verificare se esistono una pagina o un report dedicati ai propri processi e scelte sostenibili.

Possiamo verificare rapidamente se l’azienda sul sito ha il logo di B-corp o altra certificazione che, anche se non sono una garanzia di per sé di sostenibilità, testimoniano almeno che è stato intrapreso un percorso virtuoso certificato da enti esterni.

Se non troviamo nulla di ciò, possiamo dubitare sulla correttezza della proclamata sostenibilità del prodotto: la mancanza di informazioni dettagliate, spiegazioni trasparenti sui processi e sulle qualità annunciate è il primo importante segnale di “greenwashing”.

Possiamo anche domandarci se, al di là del singolo prodotto con etichetta eco-friendly, l’azienda perseveri con il commercio di una ben più vasta gamma di beni prodotti con le modalità di sempre.

Perché se è pur vero che per una grande azienda la sostenibilità è un percorso, stona un po’ il proclamarsi “green” per aver messo sul mercato un prodotto apparentemente sostenibile e non fare sforzi sul resto della produzione (magari iniziando da passi più semplici come la scelta di packaging biodegradabile, riciclato o riciclabile).

Infine possiamo dare il giusto peso al significato delle parole collegate al prodotto cui afferiscono; ad esempio, se uno shampoo è definito “eco-friendly” perché la confezione è in bio-plastica forse quell’appellativo non è corretto. Ciò non significa che bisogna stigmatizzare il packaging sostenibile ma fare attenzione alle aziende che proclamano “green” un prodotto che ha innovato solo quell’aspetto (in questi casi sarebbe più corretto scrivere packaging riciclato o biodegradabile, piuttosto che shampoo sostenibile.

Sara Secondo

LOI n° 2021-1104 du 22 août 2021